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Gli Incas i Figli del Sole
Manoa: la storia di una fantastica scoperta 
(2 Volumi)

Questo libro in due volumi, con le sue scoperte, è destinato a cambiare la nostra conoscenza del mondo di ieri, della storia precolombiana e di quello straordinario impero inca le cui vicende sono ancora in gran parte avvolte nelle nebbie della storia. Ma promette, soprattutto, di impattare profondamente sul mondo di oggi e, forse, sulla sorte economica, sociale e politica di intere regioni del Sud America.

I Volume:
L’El Dorado archeologico

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II Volume:
L’El Dorado minerario

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VOLUME 1: L'EL DORADO ARCHEOLOGICO BREVE RIASSUNTO Tutto ruota — sembra incredibile affermarlo —attorno all’El Dorado, un luogo, secondo la leggenda, traboccante d’oro e di incommensurabili tesori. A partire dalla scoperta del Nuovo Mondo, è stato causa di ossessione e delirio di intere generazioni di avventurieri ed esploratori, che inseguendo il “sogno dorato” hanno battuto palmo a palmo le montagne delle Ande, percorso le immense pianure amazzoniche e risalito i fiumi di tutto il Sud America. Una leggenda rimasta — appunto — leggenda per l’insuccesso di tutte le spedizioni che nel corso del tempo si sono succedute. Oggi, dopo cinque secoli, a questa leggenda si sostituisce un’inimmaginabile realtà, che supera di gran lunga ogni fantasia. Una verità che Vittorio Binda, in questo libro che ha del clamoroso, è pronto a svelare, con dati e dettagli precisi e incontestabili: la vera città dell’El Dorado è realmente esistita. Si chiamava Manoa ed era la capitale del Regno di Guyana, fondato dagli Incas tra la parte meridionale del Venezuela (Stato di Bolívar) e la parte nordoccidentale del Brasile (Stato di Roraima). Questa città perduta è situata nel profondo della giungla venezuelana, non lontano dai confini con il Brasile: una terra selvaggia e inospitale che, secondo l’Autore, rappresenta uno dei territori più ricchi al mondo di oro e diamanti, un vero e proprio El Dorado minerario che gli Incas avevano individuato e cominciato a sfruttare. La scoperta non è frutto di una fervida immaginazione, come sarebbe facile pensare, ma è il risultato di un lavoro di ricerca che l’Autore ha compiuto impiegando quasi un’intera esistenza. Ci accompagna con le sue parole, raccontando e spiegando come è giunto alla localizzazione delle rovine di Manoa, capitale dell’El Dorado. Partendo da una profonda conoscenza della storia degli Incas, l’Autore è andato alla ricerca di un luogo che racchiudesse in sé tre elementi fondamentali per questo popolo andino: la presenza di montagne e, insieme, di caverne, ritenute sacre e oggetto di venerazione (huacas), e l’esistenza di ricchi giacimenti d’oro, metallo che per gli Incas possedeva un altissimo valore simbolico e religioso. Un luogo con queste caratteristiche esiste: è un gigantesco altopiano, attraversato da un sistema vastissimo di gallerie e caverne naturali, che si erge in un territorio ricco in modo eccezionale di giacimenti auriferi e diamantiferi. Esiste, ed è nel cuore della giungla tropicale della Guyana venezuelana. Questo ragionamento, di tipo deduttivo, aveva ovviamente bisogno di conferme. E queste conferme sono via via arrivate grazie anche a preziosissime e fondamentali informazioni fornite all’Autore da diversi nativi, che conoscono, come nessuno al mondo, le storie di quei luoghi dimenticati con il passare dei secoli e sepolti dall’azione di una natura implacabile. Incontriamo anche noi quei nativi, come se fossimo presenti alle discussioni e ascoltassimo le loro rivelazioni. Ad esempio quelle di un anziano Missayuq Kuna o Paqo (Pako) Kuna, "sacerdote" del popolo Quero, l’unica comunità andina a preservare intatta l’antica cultura degli Incas. Le parole di João Caçador, uno dei pochissimi sopravvissuti dell’etnia Makú. E soprattutto i racconti di un indio di etnia Yekuana, Vicente Rodrigues Yurawana, che con le sue parole ci conduce, con grande precisione, a un esteso tepuy, un altopiano nascosto nell’inferno della selva tropicale della Guyana venezuelana, che conterrebbe nella sua pancia un immenso labirinto di gallerie e caverne e sarebbe situato all’interno di un territorio straordinariamente ricco d’oro e diamanti. Un luogo protetto, secondo gli Yekuana, da agguerriti guardiani, indigeni di piccola statura che si muovono nella giungla con un’agilità e una velocità impressionante, che parlano una lingua sconosciuta (il Quechua?) agli altri indios della regione, che uccidono con micidiali frecce al curaro e che, per alcuni, sarebbero i custodi dei segreti degli Incas. Conosciamo anche, tramite racconti appassionati ed emozionanti, le storie di uomini che nel recente passato potrebbero essere stati a conoscenza dell’esatta ubicazione di Manoa, la capitale dell’El Dorado, alcuni senza neanche rendersi conto che quella fosse proprio la città perduta degli Incas. L’antropologo francese Marcel Homet: nei pressi dell’isola di Maracá incontrò un capo Makú che gli rivelò un cammino che conduceva a delle rovine misteriose in mezzo alla selva. Un enigmatico dottore tedesco di Amburgo che organizzò, negli anni Venti, una spedizione nella foresta tropicale al confine tra il Brasile e il Venezuela: la sua spedizione si scontrò con una tribù di pigmei che difendevano delle case in pietra cadute in rovina. James Crawford “Jimmie” Angel — aviatore ed esploratore statunitense che diede il proprio nome al Salto Angel, la cascata più alta del mondo, da lui scoperta nel 1933 in Venezuela — e il pilota Rogério Prunes de Abreu — uno dei pionieri dell’aviazione brasiliana nella regione amazzonica: entrambi affermarono di aver visto dall’alto, in mezzo alla foresta, delle antiche vestigia ricoperte d’oro. Lucas Fernández Peña, esploratore venezuelano e fondatore della cittadina di Santa Elena de Uairén, in Venezuela: incontrò una grande muraglia in mezzo alla giungla, ma fu subito allontanato da indios che sorvegliavano quella sorprendente costruzione. Adolpho Brasil, prefetto di Boa Vista, capitale dello Stato brasiliano di Roraima: Apolinário, pajé (“stregone”) yekuana e suo grande amico, lo portò a visitare le rovine di una grande città di pietra situate non molto distanti dalla Sierra Parima che chiamava Manoa. Il fazendeiro brasiliano Luis Pereira da Silva, noto come Luisão: confermò all’Autore, in modo dettagliato, la localizzazione delle antiche vestigia di El Dorado e il cammino necessario per raggiungerle. Nel XVI e nel XVII secolo le spedizioni europee che fallirono nella ricerca dell’El Dorado non disponevano di uomini e mezzi sufficienti per addentrarsi in quel territorio pressoché inaccessibile. Ai nostri giorni la situazione dal punto di vista ambientale è sostanzialmente identica a quella di quattro o cinque secoli fa, ma a differenza del passato oggi sono a disposizione mezzi tecnologici e scientifici in grado di superare le avversità del territorio. Riportare alla luce l’El Dorado è materialmente possibile, dato che l’Autore ne conosce l’esatta posizione, corredata da precise coordinate GPS, ed è forse l’unico nella regione a conoscere la lingua e le tradizioni dei presunti misteriosi guardiani di Manoa. Il rinvenimento delle sue rovine rappresenterebbe una delle più grandi scoperte archeologiche di tutti i tempi, anche se l’organizzazione di una spedizione comporta non pochi problemi logistici per via della complicata situazione politica, sociale ed economica in cui versa il Venezuela. Inoltre è difficile che il governo venezuelano dia il permesso di accesso all’area in cui si trova questo sito archeologico, considerato sacro e protetto da tutti i cacicchi della regione, in primo luogo da quelli Yekuana. Si rischierebbe una sollevazione popolare tra gli indigeni. Segnalo che la strada di pietra incaica, che dalla giungla conduce alle rovine di Manoa, nel punto in cui fiancheggia la montagna risulta interrotta. Le comunità Yekuana del Venezuela l’hanno distrutta molto tempo fa per impedirne l’accesso. L’Autore, profondo conoscitore di quei luoghi e delle storie che da secoli vi sono nascoste, ci porta dentro altri due misteri irrisolti. Il primo riguarda la possibile esistenza di primati totalmente ignoti alla zoologia ufficiale, le scimmie antropomorfe “Supay”, di cui ebbe notizia il grande naturalista e geografo tedesco Alexander von Humboldt durante un suo viaggio compiuto in Venezuela nel 1799-1800. Nel tempo, e anche recentemente, molti sono stati gli avvistamenti e molte sono le storie, diffuse tra gli indios Yekuana e Sanumá, che attesterebbero l’esistenza di queste scimmie, descritte come molto intelligenti ma estremamente pericolose. Secondo numerose testimonianze, che attendono una verifica definitiva che avrebbe del clamoroso, le scimmie “Supay” vivrebbero dentro una montagna piena di caverne, posizionata all’interno dell’antico Regno di Guyana degli Incas, proprio nei territori dell’El Dorado. Un’antica leggenda degli Yekuana racconta che queste scimmie furono addomesticate da un popolo chiamato Winao (gli Incas) e sarebbero a difesa, ieri come oggi, dell’oro inca contenuto nelle caverne della loro montagna. Anche in questo caso l’Autore ne conosce l’esatta posizione, corredata da precise coordinate GPS. Un’altra incredibile storia ci conduce alla leggenda delle donne guerriere del Rio delle Amazzoni. La loro reale esistenza sarebbe già attestata da Gaspar de Carvajal, missionario domenicano spagnolo, testimone della battaglia tra gli uomini del conquistador Gonzalo Pizarro e una tribù di donne armate, coraggiose e preparate allo scontro, che lui stesso definì come Amazzoni (1541-1542). Seguendo e mettendo insieme le tracce fornite da dati storici, resoconti di esploratori, leggende delle tribù del luogo, racconti dell’anziano indio yekuana Vicente, prove di tipo linguistico, l’Autore ci conduce al cuore del mistero: molto probabilmente, è la storia reale delle Vergini del Sole (Yuraq Aklla), le donne inca di più alto rango, consacrate esclusivamente al culto religioso e considerate come le spose del Dio Sole. Per sfuggire alle violenze e allo sterminio degli invasori spagnoli, si avventurarono, in un esodo pieno di difficoltà e pericoli, nel fitto della giungla tropicale fino a raggiungere prima il Roraima, poi il Venezuela e infine la Serra do Tumucumaque, catena montuosa tra l’attuale Stato brasiliano di Amapá e la Guyana francese. A poco a poco, per sopravvivere, impararono a combattere e ad affrontare i loro nemici, trasformandosi così in guerriere esperte e coraggiose. Una piccola comunità di indigeni, di etnia Wajãpi, stimata in circa duemila individui (milleduecento nella Guyana francese e ottocento in Brasile, vicino alla Serra do Tumucumaque) – quasi sconosciuta al mondo – potrebbe rappresentare quanto oggi è sopravvissuto delle gloriose Vergini del Sole del popolo inca.

VOLUME 2: L'EL DORADO MINERARIO BREVE RIASSUNTO Questo libro, però, va ancora oltre, perché la ricerca dell’El Dorado non si ferma al dato archeologico e storico. Quel territorio, l’antico Regno di Guyana, era il centro minerario dell’impero inca perché ricchissimo di oro e pietre preziose. Come si svela pagina dopo pagina nel secondo volume, oltre all’El Dorado archeologico, la regione, compresa tra la riserva Yanomani nello Stato brasiliano del Roraima e la Guyana venezuelana, rappresenta un vero e proprio El Dorado minerario. La riserva Yanomani è già stata protagonista, negli anni Ottanta, di una corsa all’oro paragonabile, se non addirittura superiore, alle più famose "gold rush" della storia, come quelle avvenute in California e nel Klondike, nell’Ottocento. Venne vietata dal governo brasiliano nel 1990 e da allora l’estrazione dell’oro è proseguita clandestinamente. L’Autore — in qualità di gemmologo di fama internazionale, tra i massimi esperti mondiali di placers d'oro, diamanti e pietre preziose, e grande conoscitore di quelle aree — è in grado di rivelare per la prima volta in assoluto e con una precisione impressionante, tramite rigorose coordinate GPS, tutti i principali giacimenti auriferi e diamantiferi primari e secondari dello Stato di Roraima e della Guyana venezuelana, molti sconosciuti alla geologia ufficiale. Ci conduce nei luoghi in cui l’oro abbonda, in attesa di essere estratto, come alle sorgenti del fiume Uraricoera, uno dei principali corsi d’acqua dello Stato di Roraima, e dove probabilmente è localizzato, senza essere realmente sfruttato come dovrebbe dai garimpeiros ("cercatori d'oro e di diamanti"), uno dei più grandi giacimenti primari auriferi del mondo. Secondo l’Autore, lo Stato di Roraima possiede riserve d’oro che possono essere stimate in almeno 10.000 tonnellate (riserve dedotte o possibili - "inferred"), mentre per la Guyana venezuelana si può ipotizzare addirittura un potenziale aurifero maggiore, ammontante a oltre 15.000 tonnellate (riserve dedotte o possibili – "inferred"). Il valore teorico di 15.000 tonnellate d’oro, al prezzo nominale di 50 euro al grammo (quotazione media anno 2021), è pari a 750 miliardi di euro, che rappresenta il "Nominal Gross Domestic Product - GDP" (PIL - “Prodotto Interno Lordo Nominale”) di paesi importanti come l’Arabia Saudita, la Turchia e la Svizzera (Fondo Monetario Internazionale - 2021). Mettendo insieme dati ufficiali e documenti geologici e minerari finora rimasti segreti e in possesso dell’Autore, come lettori veniamo messi di fronte a un’altra incredibilità realtà: la ricchezza aurifera della Guyana venezuelana sommata a quella dello Stato di Roraima costituirebbe più del 20% delle riserve minerarie aurifere mondiali. Senza alcun dubbio la regione più ricca d’oro di tutto il pianeta. Un El Dorado minerario che gli Incas, la civiltà dell’oro per eccellenza, avevano iniziato a sfruttare e che potrebbe risollevare in poco tempo le sorti di regioni economicamente depresse e con una popolazione estremamente povera. Ad esempio il Roraima, con i ricchissimi giacimenti d’oro e di diamanti presenti nel suo territorio, possiede tutte le potenzialità necessarie per diventare una seconda California o un secondo Sudafrica, trainando l’economia brasiliana verso un boom economico senza precedenti. Il “Dio Oro” compì il miracolo, trasformando la California, un pigro e sonnacchioso territorio ispanico-messicano, in una delle regioni più ricche della Terra. Un miracolo ancora più grande può avvenire in Roraima, dato che le potenzialità minerarie di questo Stato brasiliano sono sicuramente maggiori di quelle del “Golden State”, soprannome con cui è conosciuta la California. Questo libro rappresenta quindi un documento unico, di straordinaria rilevanza per l’effetto senza precedenti che avrà sulla storia e sull’archeologia e per l’impatto che potrebbe avere sul futuro economico e sociale di intere regioni del Sud America. Regioni che paiono, fino a oggi, destinate alla povertà e che invece sono letteralmente sedute sopra immense montagne d’oro e di diamanti.

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Dossier Maracá

BREVE RIASSUNTO Questo libro è il viaggio inatteso in un’isola della foresta pluviale brasiliana: l’isola di Maracá. Un luogo, sconosciuto ai più, che racchiude in sé antiche storie da riscoprire, tesori nascosti e misteri da svelare. Nel 1596, l’esploratore inglese Walter Raleigh, alla ricerca spasmodica dell’El Dorado, pubblica un libro, "The Discovery of Guiana", in cui riporta la mappa del leggendario Lago Parima, ritenuto il luogo dove sorgeva Manoa, la mitica città d’oro. Nella carta geografica, all’interno del lago, disegna un’isola collocata davanti alla foce di un fiume che sembra corrispondere all'Uraricoera, attuale affluente del fiume amazzonico Rio Branco. Tutto lascia supporre che quell’isola raffigurata sia Maracá, una delle più grandi isole fluviali al mondo e luogo dalle caratteristiche ambientali uniche. Ma perché uno dei più celebri cercatori dell’El Dorado, la leggendaria città in cui si troverebbero immense quantità d’oro e pietre preziose, bramata da generazioni di avventurieri, disegnò la mappa di quell’area? Cosa stava cercando? Può rispondere a questa domanda un esploratore dei giorni nostri, Vittorio Binda, che alla scoperta del vero El Dorado e degli enigmi e misteri dell’impero inca ha dedicato gran parte della propria vita. In questo libro l’Autore ci conduce per mano nei segreti dell’isola. Ci racconta come facesse parte del Regno di Guyana, fondato dagli Incas, e proprio lì fosse in funzione, come riportato nella relazione di Juan de Salas (1570), tenente al servizio del Governatore dell’isola venezuelana di Margarita, un’importante fornace per la fusione dell’oro, estratto dai ricchi giacimenti presenti nella regione. Al centro dell’isola, presso le sorgenti di uno dei ruscelli che sfociano nel Furo Santa Rosa (ramo del fiume Uraricoera che costeggia la parte nord di Maracá), si trova un ricco giacimento aurifero primario la cui ubicazione è indicata da una serie di petroglifi incaici presenti lungo le sponde di ambedue i corsi d’acqua. Questi particolari graffiti, che mostrano il cammino da seguire per raggiungere l’enorme deposito d’oro, sono composti da una cavità circolare, scavata nella roccia, con al centro un piccolo rilievo tondeggiante. La presenza inca in quello che era un importante centro minerario dell’impero è confermata anche, come rivela questo libro, da diversi ritrovamenti archeologici di grande rilievo. In particolare, nelle vicinanze dell’isola sono state rinvenute delle macanas in pietra e bronzo, mazze da guerra utilizzate dai soldati incaici. La macana era costituita da un disco spesso a forma di stella, di pietra o di metallo (rame o bronzo), con una perforazione biconica al centro atta a fissarlo a un bastone corto di duro legno. Era l’arma preferita dalle genti andine, che la usavano per sfondare i crani dei nemici. Sono state portate alla luce negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso dai "garimpeiros" brasiliani, i cercatori clandestini di oro e diamanti, e alcune anche dallo stesso Autore. Sotto la fittissima vegetazione amazzonica, come svelato nel libro, si nasconde quindi un tesoro archeologico di incommensurabile valore, sia materiale che storico. Un tesoro che può contribuire ad ampliare la conoscenza della vera storia degli Incas, in contrasto con la limitata e, spesso, errata narrazione fatta propria dalla storiografia ufficiale occidentale. Ieri gli Incas, oggi i cercatori d’oro clandestini. L’oro è ciò che per secoli ha reso così attrattive quelle terre sepolte dalla fitta vegetazione tropicale e attraversate da fiumi portentosi. L’isola di Maracá, per la sua posizione geografica e le caratteristiche minerarie, di quella storia ne è stata e ne è tuttora testimone. Quella che oggi appare, a prima vista, semplicemente una tranquilla sede di una stazione ecologica, luogo di studi scientifici sull’ecosistema amazzonico, è in realtà meta continua, inarrestabile, di gruppi di "garimpeiros" che, sfidando la galera e i giaguari di cui l'isola è piena, estraggono clandestinamente l'oro nella sua misteriosa e impenetrabile foresta. Un vecchio "garimpeiro", che conosceva bene questo territorio, era solito ripetere all’Autore un’espressione rozza, ma efficace: «L’isola di Maracá è un enorme giacimento d’oro ricoperto da uno spesso strato di vegetazione tropicale» Sotto quello spesso strato di vegetazione, si nasconderebbe quindi un piccolo El Dorado. Binda, tra i massimi esperti mondiali di "placers" d'oro, diamanti e pietre preziose, è oggi in grado di svelare le straordinarie ricchezze aurifere dell’isola. Lo fa apportando, in questo libro, molto di più che delle supposizioni: presenta una carta metallogenica della zona, da lui disegnata e sin qui inedita, in cui sono indicate in modo preciso, attraverso le coordinate GPS, le posizioni dei principali giacimenti primari e secondari auriferi presenti all’interno e nei dintorni di questa importante stazione ecologica brasiliana. Maracá, luogo di preziosi, e finora sconosciuti, tesori archeologici che confermano la presenza degli Incas in questo territorio dello Stato brasiliano di Roraima, distante migliaia di chilometri dall’area andina, in contrasto con quanto scritto nei nostri patetici e anacronistici libri di storia precolombiana. E, insieme, luogo che nasconde nella sua pancia immensi giacimenti d’oro, fin qui solo in minima parte esplorati e sfruttati. Queste, e altre ancora, sono le rivelazioni che fanno del "Dossier Maracá" un libro destinato a riscrivere la storia di ieri, quella precolombiana, e a scuotere il mondo di oggi, la sua economia e la sua politica.

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Il Codice Pakasqa
La scrittura segreta
degli Incas

BREVE RIASSUNTO La presenza di una scrittura segreta degli Incas, il Codice Pakasqa, è svelato al mondo per la prima volta da Vittorio Binda, l’ultimo amawta (amauta) ancora esistente. Il Dizionario compilato dall’Autore, per le sue implicazioni, è destinato a rappresentare l’avvenimento archeologico più importante di tutti i tempi e a rivoluzionare la storia precolombiana. I libri di storia ci raccontano di un impero, quello inca, senza scrittura. Caratteristica che la storiografia ufficiale ha bollato come presunto segno di inferiorità rispetto alle “progredite” civiltà europee dell’epoca. Si conoscono i quipus, un sistema di comunicazione complesso, composto da cordicelle e nodi, che consentiva di conservare dati di ogni tipo: amministrativi, temporali, genealogici, storici, religiosi, ecc. Si conosce l'idioma (famiglia linguistica) parlato da questa popolazione: il Quechua, con le sue numerose varianti regionali. Manca, però, da mezzo millennio la consapevolezza di un fatto: gli Incas possedevano un proprio linguaggio scritto di tipo pittografico-ideografico. Era una scrittura composta da migliaia di simboli incisi sulle rocce di grande durezza e durabilità, come ad esempio il granito, l’andesite e la diorite. La maggior parte erano logografici semantici o ideografici, cioè esprimevano sia un significato (un’idea o un concetto) sia la sua area semantica. Questi ideogrammi scolpiti sulle pietre rappresentano un tipo molto particolare di arte rupestre, destinata a durare per secoli, con caratteristiche completamente differenti da altri generi di petroglifi presenti nel mondo. Sorprendentemente questi specifici graffiti sono ubicati solo in tre continenti: il Sud America, il Nord America e l’Oceania. Com’è possibile? Chi li ha realizzati? E qual era la loro funzione? Dopo decenni di ricerche e clamorose scoperte, Vittorio Binda è oggi in grado di rispondere a tutte queste domande. È riuscito a decifrare il significato di questo sistema di scrittura, riportando nel Dizionario centinaia di simboli primari e secondari che lo compongono. Ciò consente a chiunque di conoscerne il funzionamento di base e apprendere il significato di un numero notevole di simboli. Centrale è il riconoscimento da parte dell’Autore della funzione militare del Codice Pakasqa. L’enorme quantità di dati incisi su migliaia di rocce sparse in America e in Oceania — questa è la sua conclusione — avrebbe dovuto fornire ai futuri sovrani incas un valido supporto per allargare i confini del Tahuantinsuyo, cioè dell’impero. L’esercito inca, arrivando in un paese straniero, procedeva infatti a un’esplorazione accurata del territorio e incideva sulle pietre del luogo una serie di petroglifi, che dovevano servire alle future potenziali spedizioni militari. I simboli incisi avevano il compito di informare dettagliatamente le truppe sulla situazione della regione per facilitarne appunto la possibile conquista: le rocce contenevano notizie sugli abitanti del luogo (numero e grado di pericolosità), sulle possibilità di approvvigionamenti di cibo e materiali, sul contesto geografico, ambientale e climatico, sulla presenza di fonti d’acqua come fiumi e laghi, sull’esistenza di luoghi sicuri, dotati di difese naturali come pianori in cima a montagne scoscese, aree circondate da fiumi, valli nascoste tra alte montagne, ecc. Venivano così create delle accurate mappe tematiche del luogo esplorato. Carte geografiche che, allo stesso tempo, erano fisiche, demografiche e geopolitiche, e che oggi sorprendono per la loro precisione. L’individuazione e l’interpretazione dei petroglifi di origine inca nel continente americano e in quello oceaniano operate da Vittorio Binda, come detto, scuotono alle fondamenta le conoscenze storiche fin qui acquisite e divulgate nelle scuole, nelle Università, nella letteratura e nella filmografia. Seguendo la presenza dei petroglifi incas, e grazie alla loro corretta lettura resa possibile da questo Dizionario, si può arrivare con assoluta certezza ad alcune rilevantissime affermazioni di carattere storico: l’impero inca si stava preparando — con avamposti militari (mitimaes militari) fondati negli attuali Guatemala, El Salvador e Honduras — all’invasione del Centro America e dell’impero azteco, possibilità svanita solo a seguito dell’inaspettato e drammatico arrivo dei conquistadores spagnoli; il vero scopritore delle terre oceaniane, ben prima dei navigatori ed esploratori europei, fu Túpac Inca Yupanqui, decimo Inca del Cusco e secondo imperatore del Tahuantinsuyo; gli Incas fondarono, nel cuore dell’impenetrabile giungla venezuelana, il Regno di Guyana, con capitale la città di Manoa, il vero e unico El Dorado; spedizioni esplorative andine raggiunsero il Nord America e, probabilmente, persino l’Alaska. Con questo Dizionario, Vittorio Binda ci fornisce uno strumento scientifico unico che contribuisce a rimettere la verità al centro della storia. E ci restituisce, in tutta la sua grandezza e splendore, l’epopea di un grande popolo, quello dei “Figli del Sole”, la più grande civiltà del Nuovo Mondo e una delle più straordinarie mai apparse nella storia dell’umanità.

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