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Il Quechua
del Guatemala (la sedicente lingua Xinca)

BREVE RIASSUNTO È possibile che dietro un idioma come lo Xinca, da considerarsi oggi estinto, si celi una verità clamorosa sulla storia precolombiana? È quello che promette di rivelare Vittorio Binda con questo studio scientifico e divulgativo sullo Xinca, un idioma localizzato in alcuni dipartimenti del Guatemala, che oggi non conta più madrelingua ma solo “semi-parlanti”. È una piccola famiglia linguistica che, in modo piuttosto curioso, non ha alcuna affiliazione genetica con gli altri idiomi della regione mesoamericana. Rivolgendosi non solo agli addetti ai lavori (glottologi, dialettologi, linguisti ed etno-linguisti), ma anche a un pubblico di non specialisti, l’Autore si propone di dimostrare che lo Xinca non è altro che un dialetto della lingua Quechua o, per essere più precisi, uno dei numerosi idiomi che compongono la famiglia linguistica quechua: la lingua parlata dagli Incas. Secondo il famoso antropologo e linguista peruviano Alfredo Torero sono trentasette i dialetti (o lingue) che formano il Quechua: lo Xinca ne rappresenterebbe quindi la trentottesima variante dialettale o la trentottesima lingua della famiglia. Il libro è il risultato di un’approfondita indagine comparativa tra lo Xinca e il Quechua, a livello morfologico, sintattico e lessicale. Grazie a studi effettuati sul campo, alla conoscenza del Quechua e all’utilizzo di decine di dizionari e grammatiche di Quechua e Xinca, l’Autore ci conduce per mano nell’esplorazione linguistica di un idioma che tanto ha da raccontarci sulla storia della più grande civiltà del Nuovo Mondo: la civiltà inca. Incrociando lo studio dello Xinca con la scoperta del Codice Pakasqa, la scrittura segreta degli Incas, Vittorio Binda è infatti in grado di dimostrare che il trentottesimo dialetto quechua rappresenta l’eredità della lingua parlata da una colonia fondata dagli Incas nel XV secolo nell’attuale Guatemala, un insediamento composto prevalentemente da soldati, i cosiddetti mitimaes militari incas. Attraverso una dettagliata analisi lessicale presente in questo libro, basata sul confronto tra lo Xinca e i vari dialetti del Quechua parlati tutt’oggi, è possibile stabilire con precisione i luoghi di origine dei soldati del Tahuantinsuyo che componevano questo avamposto creato nella Mesoamerica. Per lo più provenivano dagli altopiani della Bolivia, ma anche dalle regioni costiere e andine del Perù centro-meridionale e, in misura minore, dall’Ecuador e dalla Colombia. Cosa facevano decine di migliaia di mitimaes militari in questa regione dell’America Centrale? La clamorosa tesi dell’Autore, che porterebbe a riscrivere intere pagine di storia precolombiana, è che l’impero inca si preparasse all’invasione e alla conquista del Centro America e dell’impero azteco. Un proposito che fallì solo per l’inaspettato e tragico arrivo dei conquistadores spagnoli nei decenni che seguirono la scoperta europea dell’America. Le violente battaglie combattute contro l’esercito spagnolo guidato dal brutale e crudele Pedro de Alvarado, le terribili epidemie che imperversarono nella Mesoamerica, le deportazioni in altre regioni, la feroce messa in schiavitù nelle miniere, nelle saline e nelle piantagioni, e le atrocità perpetrate dagli encomenderos spagnoli portarono a un drammatico declino dei mitimaes militari incas. Dopo un secolo di dominazione spagnola, erano ridotti a poche migliaia di individui. Un numero di abitanti troppo esiguo per poter riuscire a salvaguardare nel tempo le proprie caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali. Questo libro, documento linguistico di straordinario rilievo per gli storici, avrà anche un impatto senza precedenti per le comunità indigene del Guatemala orientale e dell’El Salvador occidentale che si autodefiniscono di etnia Xinca. Potranno appurare che non esiste alcun popolo Xinca e, tantomeno, alcuna lingua Xinca. La verità è un’altra: costoro sono discendenti dei guerrieri incas che si stabilirono nella Mesoamerica a partire dalla seconda metà del XV secolo. Il Quechua del Guatemala (la sedicente lingua Xinca) è un testo destinato a cambiare radicalmente la storia di ieri e la storia di oggi.

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BREVE RIASSUNTO Questo libro abbatte in modo definitivo un “mito” della storiografia ufficiale occidentale, la scoperta europea dell’Oceania. La storia fin qui narrata è a tutti nota: Magellano, nel suo viaggio di circumnavigazione del globo compiuto tra il 1519 e il 1521, raggiunse le isole Marianne, nel Pacifico. Circa tre decenni dopo la scoperta dell’America per mano di Cristoforo Colombo, gli europei avevano così scoperto l’esistenza di una nuova parte del mondo. Ci vorranno poi due secoli e mezzo, fino all’esploratore inglese James Cook, per avere un’esatta rappresentazione dell’immenso continente oceaniano. Eppure… Eppure diverse cronache del Cinquecento riportano una storia differente. Secondo quanto scrive, ad esempio, l’esploratore e scrittore spagnolo Pedro Sarmiento de Gamboa nella sua Historia de los Incas, Túpac Yupanqui, futuro imperatore inca, partì nel 1465 alla conquista dell’Oceano Pacifico con un’imponente flotta di zattere di balsa, con a bordo più di ventimila soldati esperti. Riportano notizie simili altri cronisti dell’epoca: lo scrittore Miguel Cabello de Balboa e il frate Martín de Murúa. Qual è la verità? Per dimostrare la veridicità di una tesi occorrono prove. Prove scientifiche. È quello che fa Vittorio Binda, esploratore dei giorni nostri, in questo libro appassionato e ricco di sorprendenti ricostruzioni storiche. L’autore cita tutti gli indizi e le prove che sarebbero già a disposizione del mondo scientifico e accademico sulle relazioni, intercorse in epoca precolombiana, tra i popoli del Sud America e quelli della Polinesia. Ad esempio, la diffusione in arcipelaghi polinesiani e melanesiani, come le Isole Gambier, Marchesi e Tanga, di leggende riguardanti un condottiero chiamato Tupa, giunto da levante e comandante di una flotta di imbarcazioni e di numerosi soldati. O la presenza, nell’Isola di Pasqua, di una facciata di un centro cerimoniale straordinariamente somigliante allo stile architettonico, unico nel suo genere, tipico delle costruzioni incas dell’epoca imperiale. O, ancora, l’“enigma” della presenza delle patate dolci nell’Oceano Pacifico, risolto in maniera definitiva grazie a un recente ampio studio genetico che ha rilevato in modo chiaro come vi sia una firma genetica sudamericana nelle varietà di patata dolce presenti in Polinesia. Considerando le tante evidenze dei contatti tra i popoli del Sud America e i popoli delle isole polinesiane in epoca precolombiana, ci si è affannati, nel mondo accademico, ad affermare che, se vi sono stati dei rapporti, questi furono dovuti alle imprese dei polinesiani, esperti navigatori, e non certo all’iniziativa di popoli come gli Incas, che non avevano le necessarie competenze e tecnologie per tentare delle traversate oceaniche. Binda smonta questa falsità storica, portando all’attenzione le prove concernenti le grandi capacità marinaresche delle civiltà Manteños-Huancavilcas e Chinchas, ubicate sulle coste degli attuali Ecuador e Perù. Trattati dagli Incas più come alleati che come sudditi, gli esperti navigatori di queste culture marinare, con le loro efficienti, veloci e inaffondabili imbarcazioni, le balsas, non avevano praticamente rivali nell’attraversare l’Oceano Pacifico. Furono loro a guidare e a trasportare fino in Oceania Túpac Yupanqui e i suoi ventimila soldati. In tempi recenti, come si racconta nel libro, sono state compiute ripetute traversate dell’Oceano Pacifico, dal Sud America verso la Polinesia, la Melanesia e l’Australia, con zattere costruite proprio sul modello delle antiche balsas sudamericane, per dimostrare che i viaggi transoceanici, in epoca precolombiana, non solo erano possibili, ma non erano neanche troppo complicati. Ad esempio lo spagnolo Vital Alsar, nel 1970 e 1973, rispettivamente con una e tre balsas, ha compiuto due incredibili traversate dall’Ecuador all’Australia, dimostrando definitivamente la fattibilità di questo tipo di viaggi attraverso l’Oceano e sbugiardando clamorosamente gli scettici che rimasero senza parole. In queste due fantastiche imprese percorse complessivamente 32.924 chilometri, soltanto 7.152 chilometri in meno della circonferenza massima della Terra (l’equatore terrestre misura 40.076 chilometri). Ma la prova regina, incontestabile, dell’avvenuto arrivo degli Incas nelle isole dell’Oceano Pacifico sta nella presenza di numerosi petroglifi, di sicura origine andina, incisi sulle pietre di varie isole della Polinesia, Melanesia e Micronesia. Tramite una ricostruzione capillare e documentata, l’Autore dimostra come sulle rocce dell'Oceania siano riportati in modo inequivocabile tutti i principali ideogrammi (logogrammi semantici) del Codice Pakasqa, la scrittura segreta degli Incas, scoperta dallo stesso Autore che rappresenta l’ultimo amawt’a (amauta) ancora esistente. Seguendo i petroglifi presenti in quelle isole, è in grado persino di mostrare al lettore l’itinerario più probabile seguito dalla flotta inca: Sud America, Isole Marchesi, Isole Gambier (deviazione di una parte della flotta verso l’Isola di Pasqua per fondare un avamposto), Isole della Società, Arcipelago della Nuova Caledonia, isola della Nuova Guinea, Isole di D’Entrecasteaux, Arcipelago di Bismarck, isola di Pohnpei (Ponape) e isola di Weno (Isole Chuuk), Sud America. Dopo oltre cinque secoli è giunto così il momento di ristabilire la verità storica. Túpac Yupanqui, il futuro imperatore inca, condusse con successo nel 1465 la più grande traversata transoceanica mai tentata fino a quel momento, e può essere considerato, a tutti gli effetti, il “Cristoforo Colombo” dell’Oceania. Ironia della storia, Túpac Yupanqui scoprì il “Nuovissimo Mondo”, l’Oceania, quasi trent’anni prima della scoperta europea del “Nuovo Mondo”. Questo libro è il racconto e, insieme, la dimostrazione scientifica di quella incredibile avventura.

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Gli Incas i Figli del Sole
Túpac Inca Yupanqui:
il “Cristoforo Colombo” dell’Oceania

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Gli Incas. I Figli del Sole
in Centro e Nord America.
La misterioriosa 
Yuraq Llaqta
(Ciudad Blanca)

BREVE RIASSUNTO C’è un’epopea di un popolo dimenticata da secoli. Ci sono dei personaggi, tra i più grandi dell’umanità, del tutto trascurati. C’è una storia, grandiosa, mai raccontata prima. È quello che fa questo libro, rompendo l’oblio e conducendo i lettori in un viaggio avventuroso lungo tutto il continente americano. Siamo nei decenni a cavallo tra il XV e il XVI secolo e i protagonisti di questa avventura sono gli Incas, il popolo del più importante e potente impero dell’epoca precolombiana. Un impero guidato, nelle sue mire espansionistiche, da una smisurata sete di potere, ma anche dalla ricerca spasmodica dell’oro, il metallo sacro inviato dal Dio Inti, il Dio Sole, la più importante divinità del pantheon incaico. Esplorare, per i “Figli del Sole”, significava ricercare nuove ricchezze, nuovo oro: un modo per avvicinarsi al divino. A volere queste esplorazioni, probabilmente, era Túpac Yupanqui, imperatore inca in quegli anni, e, successivamente, suo figlio Huayna Cápac. Come svelato da Vittorio Binda, Túpac Yupanqui, prima e durante il suo regno, compì per certo incredibili spedizioni marittime e lunghe campagne terrestri. Navigando nell’Oceano Pacifico, raggiunse nel 1465, prima degli europei e prima della stessa scoperta dell’America, la Polinesia, la Melanesia e la Micronesia. Guidò in prima persona campagne militari oltre i confini dell’impero, spingendosi fino all’estremo sud del Cile, quello che considerò la “fine della Terra”. Una brama di espansione, che nei decenni di regno di Túpac Yupanqui e di suo figlio Huayna Cápac, pareva non avere limiti, con l’impero che volgeva la sua attenzione al resto del continente americano. Le truppe inca intrapresero così una serie di viaggi perlustrativi senza precedenti, dalle terre del Sud America al Centro America, dalle isole dei Caraibi fino al Nord America e, forse, persino fino all’Alaska. L’Autore ci conduce a fianco degli uomini dell’esercito inca, i mitimaes militari, lungo i probabili percorsi di esplorazione compiuti in quei decenni. Lo fa riportando testimonianze storiche, indizi e prove di tipo archeologico, dimostrazioni di eredità linguistiche, racconti e conoscenze preziose raccolte direttamente sul territorio in anni e anni di ricerche. Dai dipartimenti colombiani del centro-nord, seguiamo il cammino degli Incas fino in Venezuela, e poi nelle isole dei Caraibi; accompagniamo il loro viaggio attraverso la fitta e tuttora impenetrabile giungla del “Tapón del Darién” verso Panamá e il Costa Rica, con le loro ricche miniere d’oro, e da lì nella giungla della Mosquitia honduregna, chiamata anche la “Piccola Amazzonia” per via della sua foresta selvaggia e inaccessibile, dove viene fondata una vera e propria città, la Yuraq Llaqta (Ciudad Blanca), l’El Dorado inca del Centro America. Il libro ci mostra i mitimaes militari inca costituire una grande colonia nell’El Salvador occidentale e nel Guatemala meridionale. Secondo le stime dell’Autore, al momento dell’arrivo degli spagnoli, vivevano in quei territori circa cinquantamila soldati incas, pronti a invadere il Centro America e l’impero azteco, proposito fallito solo per l’inaspettato e tragico arrivo dei conquistadores nei decenni che seguirono la scoperta europea dell’America. Eredità della loro presenza è la sedicente lingua Xinca, oggi praticamente estinta ma che fino a pochi decenni fa era parlata dalle comunità indigene del Guatemala sudorientale, che tuttora si autodefiniscono erroneamente di etnia Xinca. Questa lingua, come scoperto dallo stesso Autore, non è altro che un dialetto del Quechua (il trentottesimo), la lingua parlata dagli Incas. Da quell’avamposto fondato nella Mesoamerica, gli stessi mitimaes militari raggiunsero quasi sicuramente, in varie spedizioni esplorative, il Messico, il Sud-Ovest e il Nord-Ovest degli Stati Uniti, e forse persino la gelida Alaska. Ma come può l’Autore sapere che gli Incas sono usciti dai confini del regno andino per perlustrare, in previsione di future invasioni militari, un continente così immenso? Perché nessuno storico, prima di lui, racconta questo fatto? Binda è lo scopritore del Codice Pakasqa, la scrittura segreta degli Incas, rimasta nascosta ai nostri occhi dopo l’implosione dell’impero del Tahuantinsuyo avvenuta a seguito dell’inatteso arrivo dei conquistadores spagnoli. Gli Incas possedevano, a differenza di quanto affermato nei libri di storia, un proprio linguaggio scritto di tipo pittografico-ideografico. Era una scrittura composta da migliaia di simboli primari e secondari incisi sulle rocce, il cui significato è stato decodificato e interpretato dall’Autore stesso, dopo decenni di studi e ricerche. Questi ideogrammi scolpiti sulle pietre rappresentano un tipo molto particolare di arte rupestre, destinata a durare per secoli, con caratteristiche completamente differenti da altri generi di petroglifi presenti nel mondo e che sorprendentemente è ubicata solo in tre continenti: il Sud America, il Nord America e l’Oceania. Il motivo è molto semplice: gli Incas non hanno mai calpestato il suolo degli altri continenti. Questi graffiti contenevano, questa è l’essenza della questione, dei messaggi rivolti all’esercito inca sul contesto socio-ambientale dei territori esplorati, utili nell’ottica di una futura possibile campagna di conquista. È appunto seguendo la presenza dei petroglifi incas che, in questo libro, si può svelare una straordinaria verità storica: gli Incas, in preparazione di possibili invasioni, hanno esplorato in più occasioni il Sud America, il Centro America e il Nord America. Nel libro si ricostruiscono i percorsi, anche con le coordinate GPS dei luoghi citati, fornendo prove precise e dettagliate, accertabili da parte di qualunque studioso dotato di buona volontà e onestà intellettuale. Con questo libro si restituisce al mondo, dopo cinque secoli, la conoscenza di una delle più grandi avventure dell’umanità: l’esplorazione compiuta dai “Figli del Sole” del continente americano, decenni prima dell’avvenuta scoperta dell’America da parte del genovese Cristoforo Colombo.

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Gli Incas.
I Figli del Sole in Brasile
Il leggendario Paititi

BREVE RIASSUNTO L’antico cammino sudamericano del Peabiru, due fortezze dall’origine enigmatica, una nella selva tropicale del dipartimento boliviano di Beni e un’altra nella foresta brasiliana dello Stato di Rondônia, la mitica città di Paititi, il mistero archeologico della “Pedra do Ingá”. Sono molti gli arcani che questo libro, un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio, affronta e risolve. Come si scoprirà leggendo, c’è un comune protagonista: il popolo degli Incas. E c’è un periodo della storia che ancora è avvolto nella nebbia: è quello dei decenni che anticipano e seguono l’arrivo dei primi conquistadores europei in Sud America, avvenimenti che avrebbero portato alla scomparsa dell’impero inca, la più grande civiltà del Nuovo Mondo. I luoghi del Brasile in cui Vittorio Binda ci conduce con sé, con la passione dell’esploratore e l’accuratezza scientifica di chi da decenni studia quel mondo, rappresentano pezzi di una storia più grande, una storia che attende di essere riscritta. È quella delle esplorazioni e delle conquiste del popolo inca al di fuori dei confini imperiali delle Ande. Esplorazioni che, come Binda rivela in altre sue opere, portarono questo incredibile popolo precolombiano a calpestare le terre lontane del Centro e Nord America e persino quelle di diverse isole dell’Oceania, ben prima di Cristoforo Colombo e Magellano. Se il quadro che si tratteggia è quello di un impero dalle potenti ambizioni di espansione (e lo fa ricercando oro e metalli preziosi, innanzitutto), il libro non può che iniziare con una strada: il cammino del Peabiru. È l’antico e misterioso percorso indigeno, lungo migliaia di chilometri, che collegava l’Atlantico con il Pacifico. Una sorta di lunghissima autostrada, la più importante dell’America precolombiana, che attraversava foreste, paludi, montagne e pianure. Fu tramite il Peabiru, come si riporta nel libro, che l’avventuriero portoghese Alejo Garcia, nel 1524-25, cioè otto anni prima del conquistador Francisco Pizarro, penetrò nel territorio inca, primo europeo a farlo. Quello che il libro rivela è come il cammino del Peabiru, verso la fine del Quattrocento o gli inizi del Cinquecento, sia stato utilizzato dai soldati dell’imperatore inca nei suoi progetti di espansione verso l’Atlantico, in territorio brasiliano. Lo si dimostra, oltre che con prove di tipo archeologico, grazie a una scoperta sorprendente: la presenza, in diversi luoghi lungo questa via di comunicazione, di numerosi petroglifi di sicura origine incaica. Ad esempio, nell’attuale Stato brasiliano di Santa Caterina, che si affaccia sull’Oceano Atlantico, sono numerosi i graffiti realizzati dai guerrieri del Tahuantinsuyo nei loro viaggi di esplorazione. Questa rivelazione, nuova per la storiografia ed esplosiva per le sue conseguenze, è stata resa possibile dalla scoperta, compiuta dall’Autore stesso, del Codice Pakasqa, la scrittura segreta degli Incas. Una scrittura ideografica che veniva incisa dagli esploratori incaici su pietre di grande durezza e che aveva lo scopo di descrivere la situazione socio-ambientale dei luoghi attraversati, una fonte di informazioni fondamentale in previsione di eventuali spedizioni militari di conquista. Pagina dopo pagina, si seguono poi le tracce degli Incas nel fitto della selva boliviana del dipartimento di Beni, fino ad arrivare alla foresta pluviale amazzonica dello Stato brasiliano di Rondônia. Lungo il cammino si incontrano due antiche fortificazioni in pietra, oggi in rovina: la Fortezza “Las Piedras” e la Fortezza “Serra da Muralha”. Due siti archeologici fin qui dall’origine non chiarita, in territori particolarmente ricchi di oro e cassiterite, metalli fondamentali per la metallurgia incaica. Grazie alla presenza e all’interpretazione di diversi petroglifi di sicura origina andina, si dimostra finalmente come queste due fortezze facessero parte di un vasto sistema difensivo posto ai limiti dell’impero del Tahuantinsuyo. Il viaggio nella foresta di Rondônia prosegue lungo le rive del fiume Guaporé, fino ad arrivare alle rovine dell’enigmatica Città Labirinto (Cidade Labirinto), una singolare costruzione formata da vari compartimenti che ubbidiscono a una logica sconosciuta. Anche qui, tramite prove di tipo storico e archeologico e, soprattutto, grazie all’interpretazione inedita delle incisioni rupestri presenti nel luogo, l’Autore spiega una volta per tutte cosa c’è davvero dietro la leggenda della città di Paititi, la mitica città d’oro degli Incas situata nella giungla amazzonica ad est della capitale Cusco, che dal XVI secolo fino ad oggi ha rappresentato l’obiettivo di molte spedizioni organizzate da pseudo-studiosi, ricercatori e avventurieri, tutti infettati dalla “febbre dell’oro”. La realtà, come si argomenta nel libro, è piuttosto chiara e, decisamente, deludente: il Paititi non sarebbe altro che un semplice avamposto inca nascosto nella giungla che circonda le rive del fiume Guaporé, ai confini dell'impero, e corrisponderebbe alla Città Labirinto. Questo modesto complesso archeologico, formato da rustici muri difensivi che contengono al loro interno rozze costruzioni in pietra, avrebbe ospitato numerosi indigeni scappati dal Perù dopo la caduta di Cusco nelle mani degli spagnoli. La vera città d’oro, l’El Dorado, cercata spasmodicamente per secoli da intere generazioni di esploratori, è stata individuata da Binda ed è l’antica città di Manoa, nascosta nel cuore della fitta e inesplorata giungla della Guyana venezuelana, ai piedi di un gigantesco tepuy. Tutt’altra storia e tutt’altro luogo. Sempre seguendo le indicazioni dei petroglifi inca, ripercorriamo il tragitto dei soldati dell’impero andino lungo l’intero Rio delle Amazzoni e i suoi maggiori affluenti. Si giunge così al più importante sito di arte rupestre di tutto il Brasile: la “Pedra do Ingá”, un grande monolito su cui sono incisi moltissimi petroglifi, finora mai interpretati. Per la prima volta, sempre grazie alla scoperta della scrittura segreta degli Incas, è possibile non solo provare l’origine inca di questo grande giacimento archeologico, ma anche decriptarne il messaggio contenuto. Questo libro ci offre quindi la possibilità di compiere un entusiasmante percorso di esplorazione. Di vivere, tramite la sua appassionante narrazione, un’avventura unica. Un’avventura che ci costringe a rivedere quanto del passato si conosce e a ridisegnare geografia e storia della più importante civiltà precolombiana e una delle più grandi mai apparse nella storia dell’umanità, quella dei “Figli del Sole”.

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QUESTO LIBRO È UN ESTRATTO DELL’OPERA: GLI INCAS.
I FIGLI DEL SOLE IN BRASILE. IL LEGGENDARIO PAITITI

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PAITITI: AVAMPOSTO MILITARE INCA IN RONDÔNIA (BRASILE).
Scoperta dall'Autore la leggendaria città perduta degli Incas.

BREVE RIASSUNTO Tutto ruota – sembra incredibile affermarlo – attorno al Paititi, luogo – secondo la leggenda – traboccante d’oro e di incommensurabili tesori. A partire dalla scoperta del Nuovo Mondo, è stato causa di ossessione e delirio di intere generazioni di avventurieri ed esploratori che inseguendo il “sogno dorato” hanno battuto palmo a palmo le montagne delle Ande, percorso le immense pianure amazzoniche e risalito i fiumi di tutto il Sud America. Una leggenda rimasta – appunto – leggenda, per l’insuccesso di tutte le spedizioni che nel corso del tempo si sono succedute. Oggi, dopo cinque secoli, a questa leggenda si sostituisce una solida realtà. Una verità che Binda è pronto a svelare, con prove e dati precisi e incontestabili, in questo libro sensazionale. Pagina dopo pagina, si seguono le tracce degli Incas nel fitto della selva boliviana del dipartimento di Beni, ai confini dell’impero del Tahuantinsuyo, fino ad arrivare alla foresta pluviale amazzonica dello Stato brasiliano di Rondônia. Lungo il cammino si incontrano due antiche fortificazioni in pietra, oggi in rovina: la Fortezza “Las Piedras” e la Fortezza “Serra da Muralha”. Due siti archeologici fin qui dall’origine non chiarita, in territori particolarmente ricchi di oro e cassiterite, metalli fondamentali per la metallurgia incaica. Grazie alla presenza di numerose prove e all’interpretazione di diversi petroglifi di sicura origina andina, si dimostra finalmente come queste due fortezze facessero parte di un vasto sistema difensivo incaico posto ai limiti dell’impero del Tahuantinsuyo. Il viaggio nella foresta di Rondônia prosegue lungo le rive del fiume Guaporé, fino ad arrivare alle rovine dell’enigmatica Cidade Labirinto (“Città Labirinto”), una singolare costruzione formata da vari compartimenti che ubbidiscono a una logica sconosciuta. In questo luogo, tramite verifiche di tipo storico e archeologico e, soprattutto, grazie all’interpretazione inedita delle incisioni rupestri presenti nell’area, l’Autore spiega una volta per tutte cosa c’è davvero dietro la leggenda della città del Paititi. La mitica città d’oro degli Incas, situata nella giungla amazzonica ad est della capitale Cusco, dal XVI secolo fino ad oggi ha rappresentato l’obiettivo di molte spedizioni organizzate da pseudo-studiosi, ricercatori e avventurieri, tutti infettati dalla “febbre dell’oro”. La realtà, come si argomenta nel libro, è piuttosto chiara e, decisamente, deludente: il Paititi non sarebbe altro che un semplice avamposto militare inca nascosto nella giungla che circonda le rive del fiume Guaporé, ai confini dell'impero, e corrisponderebbe alla Cidade Labirinto. Questo modesto complesso archeologico, formato da rustici muri difensivi che contengono al loro interno rozze costruzioni in pietra, avrebbe ospitato, in seguito, numerosi indigeni scappati dal Perù dopo la caduta di Cusco nelle mani degli spagnoli. La vera città d’oro, il vero e unico El Dorado, cercato spasmodicamente per secoli, è stato individuato da Binda ed è l’antica città di Manoa, nascosta nel cuore della fitta e inesplorata giungla venezuelana, ai piedi di un gigantesco tepuy. Tutt’altra storia e tutt’altro luogo. Qui la realtà supera di gran lunga ogni fantasia. Bisognerà attendere la pubblicazione del prossimo libro dell’Autore (“Gli Incas. I Figli del Sole. Manoa: la storia di una fantastica scoperta”) per scoprire tutti i dettagli di questa incredibile avventura, che ha del clamoroso.

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